Da diverso tempo si sente parlare, nuovamente dopo alcuni decenni, di stagflazione. Qual è il significato di stagflazione? Il termine deriva dalla fusione di due parole: stagnazione e inflazione. Per stagnazione economica si intende una crescita bassa o nulla del PIL (prodotto interno lordo), mentre con il secondo termine si fa riferimento a un aumento generalizzato dei prezzi medi di beni e servizi. Questo concetto dunque delinea uno scenario economico in cui sono compresenti forte e persistente inflazione, stagnazione economica e, come conseguenza di quest’ultima, tasso di disoccupazione alto. Vediamo meglio in cosa consiste e in cosa si differenzia rispetto alla più nota inflazione.

Cos’è la stagflazione

In genere l’inflazione si accompagna a crescita economica: è la situazione in cui all’aumento della domanda corrisponde un aumento dei prezzi. Si tratta di “inflazione da domanda”, indice di un’economia in buona salute perché è la domanda – quindi la capacità di spesa di persone e famiglie – che fa salire i prezzi. Crescita economica e inflazione vanno quindi di pari passo e, in una circostanza di questo genere, cercare di limitare l’inflazione deprime la domanda e compromette il PIL. 

Quando invece c’è stagflazione coesistono due condizioni negative. Da un lato le imprese registrano una crescita economica debole o nulla, con calo di produzione. Dall’altro i consumatori vivono una condizione di forte disoccupazione e di bassa capacità di spesa, che rende il rialzo dei prezzi insostenibile (inflazione), da cui consegue un rallentamento della domanda.


Le cause della stagflazione


La discussione degli economisti sulle cause della stagflazione è ancora aperta. Probabilmente questo fenomeno si verifica quando l’inflazione non dipende dalla crescita della domanda, ma da fattori esterni. Esiste infatti anche la cosiddetta “inflazione da offerta”: ad esempio i blocchi produttivi legati alla pandemia di COVID-19 hanno rallentato le forniture, analogamente l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha causato un rialzo dei prezzi delle materie prime e dell’energia (gas, elettricità etc.) per diminuzione dell’offerta. Per le aziende produrre costa di più e ciò si riflette nell’incremento di prezzo dei prodotti finiti. L’inflazione attuale non è quindi spinta dalla domanda ma da questioni legate all’offerta, accentuate dalla stretta interconnessione dell’economia mondiale, che supera confini territoriali e di settore economico. 

Un po’ di storia

Sembra che il termine stagflazione sia stato coniato nel 1965 dal politico britannico Iain Macleod in un discorso alla Camera dei comuni per descrivere la situazione economica in cui il Regno Unito si trovava all’epoca. Situazione che negli anni Settanta si estese agli altri paesi industrializzati. 

In letteratura infatti si associa questa condizione allo scenario economico degli anni Settanta, con la crisi petrolifera innescata nel 1973 dal blocco delle forniture del greggio (e relativo rincaro del prezzo) da parte dell’OPEC, organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. A cui è seguita nel 1979 la crisi petrolifera legata alla rivoluzione che trasformò l’Iran in una repubblica islamica e alla successiva guerra tra Iran e Iraq.

Alla crescita del prezzo del petrolio (e poi di altre materie prime) fece seguito l’aumento dei costi di produzione e quindi del livello generale dei prezzi al consumo. L’inflazione provocò una caduta della domanda e una stagnazione economica. In alcuni paesi ad alimentare l’inflazione furono i meccanismi di indicizzazione ai prezzi di salari, pensioni etc., come nel caso dell’Italia con la scala mobile.

La stagflazione mise in discussione le politiche economiche adottate fino ad allora, secondo cui un certo tasso di inflazione era lo scotto da pagare per avere meno disoccupazione e quindi maggior crescita economica. Infatti fino agli anni Cinquanta-Sessanta gli economisti pensavano che inflazione e disoccupazione avessero una relazione inversa e, perciò, che inflazione alta e disoccupazione alta non potessero convivere. Questa relazione inversa derivava dall’osservazione sull’andamento di salari e disoccupazione nel corso di un centinaio d’anni nel Regno Unito. Fu l’economista Alban William Phillips a formalizzare (1958) questa relazione empirica in quella che viene chiamata ancora oggi curva di Phillips, anche se è stata “rielaborata” da altri studiosi nel corso degli anni Sessanta.


Le conseguenze della stagflazione

Secondo la curva di Phillips il fatto che ci sia una certa quota di inflazione è indice di espansione produttiva e maggior capacità d’acquisto dei consumatori. Al contrario, la stabilità e il calo generale dei prezzi sono associati a flessione economica e disoccupazione su ampia scala (deflazione). La curva di Phillips ha guidato le scelte di politica economica degli anni Settanta, per esempio con iniziative di sostegno all’occupazione per favorire la domanda. Le iniziative dei governi per far fronte alla crisi petrolifera però non riuscivano ad avere effetto sulla capacità produttiva, ma solo sull’inflazione facendo salire i prezzi e – in un circolo vizioso – finendo per alimentare l’inflazione stessa. 

Ad ogni modo la stagflazione negli anni Settanta alla luce della curva di Phillips risultava un paradosso. Un fenomeno illogico che però si spiega con il concetto di inflazione da offerta, in quel momento dovuta all’impennata del prezzo del petrolio. 

In una condizione di stagflazione gli interventi di politica economica sono complicati ancora di più dalla compresenza di inflazione alta e stagnazione economica, perché contrastare una delle due significa stimolare l’altra. Per contrastare la salita dei prezzi le banche centrali possono attuare una politica monetaria restrittiva, cioè ridurre la moneta in circolazione (ad esempio vendendo titoli di stato) e alzare i tassi d’interesse. Oltre a contenere l’inflazione questa manovra “raffredda” l’economia, cioè ferma i consumi e la crescita del PIL – che in una fase di stagflazione è già rallentato – e continua a far salire il tasso di disoccupazione.

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